Madonna dell'acero

L’immagine della Madonna dell’Acero, venerata da secoli è un dipinto ad olio su tavola di piccole dimensioni: appena 25 cm di lato in una forma quadrangolare; si mostra ancor oggi ottimamente conservata.

Nonostante diverse ricerche storiche si sono occupate a varie riprese di stabilirne una datazione certa, è difficile risalire al periodo in cui fu dipinta.

Mi è sembrato interessante a questo proposito una menzione che si trova nell’opuscolo, curato da don Antonio Pullega; si tratta di una testimonianza tratta da un documento d’archivio del XVIII secolo in cui leggiamo: “Di questa santa immagine pochissimi documenti si trovano autentici della sua origine per poterne scrivere sinceramente le cose ad onore di essa, Beata Vergine, e per compiacere al pio desiderio di alcuni che ne bramano qualche breve notizia. E non trovandosi qualche tradizione passata dell’antichità ai posteri e così da un’età all’altra cioè dagli antenati di questa comunità e dalle altre circumvicine”.

Daterei allora questa opera nel primo barocco, attribuibile con una certa sicurezza ad una maestranza legata alla scuola di Guido Reni.

I colori del dipinto seguono i cromatismi consueti legati alla rappresentazione classica della Madre di Dio in occidente: rosso porpora per la tunica, blu per il manto, bianco crema per il velo.

Nella Madonna c’è anche una piccola porzione di drappo di colore verde acceso che appare sotto la mano destra, esso sembra avvolgere un oggetto presumibilmente dorato. Forse si tratta di una bisaccia; in realtà si tratta di un simbolo di difficile interpretazione, non è semplice accordare un significato univoco.

Il Bambino si mostra svestito e del tutto privo abiti, l’artista ha conferito una posizione abilmente ricercata che ovvia comunque l’assenza del perizoma che normalmente coprono le nudità.

Il mantello della Madonna a sua volta presenta un’aggiunta, forse posteriore, di una stella sulla spalla destra dove appare un corpo luminoso con una propaggine: sembrerebbe la rappresentazione della stella cometa.

Attorno al capo, al posto dell’aureola, compaiono una serie di 12 stelle, questo elemento sembra risentire della citazione di Apocalisse al capitolo 12, dove leggiamo: “Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle”.

II bambino Gesù porta attorno al capo una sorta di tre irradiazioni dorate che identificano la croce. Manca l’Aureola ma è ben identificabile il segno cruciforme e questo si deve ad una reminiscenza certa che traiamo dall’iconografia classica in cui il Cristo è identificato come il crocifisso e nello stesso tempo come il vivente. Nella menzione scritturistica di Es. 3,14 nell’apparizione del roveto ardente, Dio consegna a Mosè la rivelazione del suo nome: “Io sono colui che sono” e quindi indicherebbe che il Cristo Emanuele qui rappresentato è nello stesso tempo il crocifisso ed il risorto: colui che muore ma dà la vita, appunto il Vivente e autore della vita.

Con riferimento all’iconografia tradizionale il dipinto presenta una sorta di citazioni combinate di modelli stereotipi; mi è sembrato di individuarne almeno due.

Madonna dell'acero

Sì può scorgere il modello della cosiddetta “Madonna del latte”. Il bambino infatti infila la mano lungo il seno della Madre di Dio per essere allattato. Meno immediato invece identificare nell’altro segno dell’incontro della mano della Madre con la mano del bambino. Credo di poter intravvedere qui il modulo della Madre di Dio della tenerezza, che è indicato anche da un altro simbolo. La Madre di Dio non guarda il bambino come nel modello più tradizionale della Odighitria, piuttosto il suo sguardo si sofferma a guardare in avanti, fuori del dipinto verso il popolo di Dio e più in particolare ogni fedele che con devozione si avvicina a questa immagine. Soprattutto, se guardiamo con attenzione, ci accorgiamo che la mano del bambino si incontra con la mano della Madre di Dio in una posizione sopraelevata, ad indicare che più che ricevere qualcosa, dona a sua volta. Questa sembra quindi una lettura plausibile del modello della tenerezza in cui, alla Madre sconsolata a causa del peccato della umanità, il bambino attribuisce grazie e forza che vengono a Dio.

La collocazione di questa immagine infine è di estrema importanza se riportata al suo contesto nativo, poiché dopo la riforma liturgica degli anni 60 il celebrante è rivolto verso il popolo.

Queste immagini erano nativamente collocate al di sopra di un altare e costituivano un punto focale per i fedeli ma anche per il sacerdote stesso. Per capire questo aspetto dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione, ricordando che quando il sacerdote, nel momento della elevazione, alzava l’ostia dicendo: “Ecce Agnus Dei, qui tollit peccata mundi…”, il fedele nella navata della chiesa percepiva una associazione di immagini molto forti, dove l’Eucarestia si sovrapponeva all’ immagine del bambino che cerca il seno della Madre per essere allattato. Anche l’Eucarestia è cibo per il fedele e dal seno della Madre Chiesa viene nutrito come il bambino dalla propria madre. C’è una analogia evidente, tra il seno della Madre e l’Eucarestia che il sacerdote dà al fedele per il nutrimento spirituale.

La bella immagine della Madonna ci attira ancora oggi per la bellezza della postura e degli sguardi. Dipinto che è artisticamente impeccabile per la bellezza, il vigore dei colori, con un cromatismo splendido che ancora oggi porta con sé dopo tanti secoli. Ma soprattutto ci attira e ci scalda il cuore perché ci introduce nel mistero della Madre e del suo bambino che sono venerati in questo Santuario dopo una rivelazione diretta della Madre di Dio. E anche noi contemplando questo dipinto siamo chiamati a fare nostra la frase del salmo:

“Signore non si inorgoglisce il mio cuore 

e non si leva con superbia il mio sguardo; 

non vado in cerca di cose grandi, 

superiori alle mie forze. 

Io sono tranquillo e sereno 

come bimbo svezzato in braccio a sua madre, 

come un bimbo svezzato è l’anima mia. 

Speri Israele nel Signore, 

ora e sempre.” 

Don Gianluca Busi